Percorsi tematici di Lettura Civile: ecco un altro dei compiti che una buona libreria indipendente deve fare.

15970173_10212262478745787_138200153_nMercoledì 11 gennaio alle ore 18 abbiamo iniziato ai Diari la nuova stagione degli Eventi in libreria con una Lettura ad Alta Voce del romanzo “Anatomia di un soldato” di Harry Parker nella traduzione di Martina Testa e pubblicato recentemente nella Collana: BIG SUR.
Perchè un libro dai temi non facili come percorso di lettura? Molto sempice! I “lettori veri” sono curiosi e cercano libri che sappiano affrontare molti problemi e da diverse angolazioni. Interessarsi a certe problematiche vuol dire soddisfare la curiosità ma anche crearsi una coscienza civile, dove è possibile, e nei libri si possono trovare molte più risposte di quanto non si creda. Una libreria, che fa il suo dovere, deve poter offrire la possibilità di leggere, aiutando ad essere più curiosi e sfruttando le migliori occasioni che la lettura fornisce, anche nel far passare messaggi importanti e fare opera di sensibilizzazione.


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Fondamentale è in queste operazioni lo strumento della LETTURA AD ALTA VOCE. Non si può imporre a tutti la cultura, la conoscenza e l’amore per i libri, ma per chi partecipa a queste Letture, spesso, si può aprire un mondo su tematiche poco frequentate. Così abbiamo deciso di seguire un pecorso di letture che fa dell’impegno civile una sua ragione. Leggendo ed ascoltando si comincia a dare più importanza al pensiero e alla parola. Si comincia a capire che la realtà è complicata da decifrare e ci vuole sia pazienza che giudizio per analizzarla. La letteratura è un mezzo fondamentale e necessario per parlare di politica anche con i non addetti ai lavori. La politica non è solo quella che si fa dentro i palazzi del potere, è una dimensione naturale dell’uomo, la sola che garantisce le condizioni entro cui può realizzarsi la pienezza della vita sociale. In certi libri, usando un linguaggio appropriato e una struttura narrativa facilmente accessibile, si riesce a raccontare una storia che appassiona il lettore e nella quale si può costruire la memoria ed esplorare, comunque, periodi conflittuali della Storia. Attraverso romanzi mossi da un appassionato intento civile si riescono a presentare al lettore temi controversi di grande peso senza mai ricorrere ad argomentazioni pre-confezionate o scadere in pregiudizi spesso generati da mistificazioni.


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Ecco perchè per raccontare l’orrore della guerra, la bruttura dei conflitti tra popoli abbiamo scelto un libro di uomini in guerra. Abbiamo scelto il romanzo d’esordio di Harry Parker, la sua particolare autobiografia per denunciare, nei dettagli, quel teatro di orrori e di distruzione che è la guerra, qualsiasi guerra. Un libro e una lettura ad Alta Voce per rimarcare ancora una volta che la guerra è brutta e porta solo perdite, dolore, sperpero, distruzione enorme e inutile.
Tom Barnes, alter ego dello scrittore nel libro, è un giovane capitano dell’esercito britannico in Afghanistan, che durante una missione salta in aria su un ordigno improvvisato e perde le gambe. Gli altri due protagonisti sono Latif, un ragazzo afghano che milita nelle file dei ribelli, e Faridun, suo amico d’infanzia che cerca di vivere pacificamente nel proprio villaggio. Ma neanche loro saranno risparmiati dalla ferocia del conflitto. “Anatomia di un soldato” racconta la storia di questi tre personaggi in maniera straordinariamente originale, attraverso 45 capitoli ciascuno narrato da un oggetto testimone della vicenda: una scarpa da ginnastica di Latif, un ordigno costruito dai guerriglieri, la bici di Faridun, lo zaino di Tom, la borsa di sua madre, la sega che gli amputa una gamba, la protesi che gliela rimpiazza… È un coro di voci prive di sentimentalismo, di ideologia, di riferimenti all’attualità: ciò che raccontano, dalla loro prospettiva ravvicinatissima, è solo il dramma eterno della guerra, con il suo portato di dolore, distruzione e morte, ma anche la capacità umana di conservare, malgrado tutto, la speranza.
Di questo magnifico libro, l’amico dei Diari, lo scrittore Andrea Cabassi ha fatto una delle più belle recensioni che io abbia mai letto, citando peraltro un altro capolavoro presente sui nostri banchi “La mia vita è un paese straniero” di Brian Turner, NN Editore.

Scrive Cabassi: in “Anatomia di un soldato” l’oggetto parla e dice degli umani. Dice degli umani anche quando l’oggetto si riferisce a Tom Barnes con il numero che lo identifica: BA5799. L’oggetto (il laccio emostatico, lo zainetto, la mina, le scarpe da ginnastica, gli anfibi, il visore notturno, il catetere, la sega, le gambe artificiali etc…) in quanto oggetto non può esprimere emozioni o sentimenti. Ma l’oggetto che parla, l’oggetto che narra descrive le emozioni e i sentimenti, anche più intimi, degli umani, descrive la paura e il dolore, descrive le angosce e il terrore, descrive la genesi delle difficili scelte di chi resta in una terra lontana e di chi in quella terra, giovanissimo e, spesso, con esiti tragici, combatte contro “gli infedeli”. E così abbiamo davanti ai nostri occhi, mentre leggiamo, personaggi vivi e palpitanti di umanità. In ogni capitolo parla un oggetto e questo permette di cogliere i diversi punti di vista dei vari personaggi. Non c’è nessun narratore onnisciente, non può esserci un narratore onnisciente perché non esiste una gerarchia degli oggetti: tutti hanno eguale importanza nell’economia della narrazione. Inoltre gli oggetti che parlano, che raccontano danno vigore all’azione: ci sono momenti in cui ci si trova davanti ad un classico romanzo di guerra dove non manca la suspence, altri momenti in cui siamo accompagnati ad una introspezione profonda. Il pericolo che poteva essere insito in una scelta narrativa di questo tipo era la frammentazione. Nulla di tutto questo accade: i discorsi tra gli oggetti si intrecciano tra loro dando vita ad una trama compiuta, drammatica, emozionante. Sono gli oggetti che, tra sincronie e diacronie, dettano i tempi del romanzo accelerandoli o rallentandoli ad arte e sono gli oggetti a introdurci ai grandi temi del senso della guerra, della difficoltà delle popolazioni occupate, del difficile ritorno in patria.
Viene in mente un altro grande romanzo uscito recentemente, “La mia vita è un paese straniero” di Brian Turner (Cfr. “ Turnr, B. “La mia vita è un paese straniero” NN Editore. Milano. 2016). Anch’esso un libro sulla guerra, anch’esso un libro che riflette sul nostro tragico destino di umani destinati (destinati davvero a questo?) alla distruzione.
“Anatomia di un soldato” e “La mia vita è un paese straniero” andrebbero letti insieme, comparati, confrontati. Non a caso entrambi gli autori sono reduci di guerra che si sono dedicati alla letteratura con risultati davvero stupefacenti. Come se la letteratura fosse una catarsi, un baluardo contro la barbarie, quella coperta che Christa Wolf, nella sua ultima opera e che è anche il suo testamento politico e letterario avrebbe voluto resistente per rivestire la nostra civiltà, quella coperta che non sapeva se avrebbe retto perché si stava strappando in più punti… Siamo davanti ad un grande, appassionato libro che non ha un happy end, ma si conclude, almeno a me sembra e starà al lettore interpretare – con qualche filo di speranza. Benché si vivano tempi cupi e drammatici. Benché la coperta di cui parlava Christa Wolf si stia strappando in sempre più punti. Benché quella coperta sia sempre più difficile da cucire. Già a dimostrare che la coperta si stava cominciando a strappare in non ricucibili punti fu quello che accadde in Kuwait, in Iraq, nella città martire Sarajevo, nel cuore dell’Europa, durante gli anni novanta. Oggi è la città martire Aleppo a urlarlo.


15970252_10212262469185548_1414535306_nQuella di fare percorsi di lettura sull’impegno civile è qualcosa che ai Diari di bordo abbiamo caricato nel nostro Dna. Parlare di pacifismo e conflitti, migrazioni e integrazione, omosessualità e genderfobia, diversità e rispetto è stato un percorso che abbiamo fatto sin dalla primissima ora ai Diari.
Con l’aiuto della pittrice e attrice Eloisa Guidarelli, a soli dieci giorni dall’apertura della Libreria, avevamo inaugurato nell’ottobre del 2014 una mostra di quadri dal titolo ” A sud di Lampedusa”. Nella serata di inaugurazione Eloisa Guidarelli aveva letto brani tratti dall’omonimo libro “A Sud di Lampedusa, cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti” di Stefano Liberti, edito da Minimum Fax.

“A Sud di Lampedusa” di Stefano Liberti non è stato solo un libro di reportage sul mare dei diritti negati e annegati, ma anche un accurato documentario di Andrea Segre con la sceneggiatura nata dalla collaborazione proprio con l’autore e Ferruccio Pastore dal titolo «Mare chiuso», in cui veniva raccontata la storia di un gruppo di profughi, in gran parte eritrei e cristiani, in fuga dalla guerra che da troppo tempo sconvolge quei territori martoriati.


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Libro di inchiesta esemplare e completo che diventa anche una splendida narrazione di uomini e luoghi. Vincitore del Premio giornalistico Marco Luchetta, del Premio di Scrittura Indro Montanelli, del Premio Carletti per il Giornalismo Sociale, questo libro è servito a far conoscere ai nostri lettori uno dei pochi giornalisti italiani che seguono gli aspetti meno conosciuti dei movimenti migratori dell’Africa verso l’Europa. Liberti, senza fidarsi dei luoghi comuni o dei proclami ufficiali, ha scelto di esplorare la «geografia del transito» tra il Sahel e il Maghreb, risalendo alla sorgente di un flusso umano di cui spesso vediamo solo la foce. Ha incontrato migranti che preferiscono chiamarsi avventurieri, politici africani sudditi dei diktat europei, gruppi di clandestini bloccati in mezzo al deserto e piccole città sorte dal nulla, e ci restituisce il quadro vivo e sfaccettato di un fenomeno che l’appiattimento mediatico riduce e generalizza, ingestibile «emergenza».
Sempre di Stefano Liberti negli scaffali dei Diari si trova “Land grabbing: come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo”. Un libro che fa una analisi profonda e documentata del capitalismo agrario, ma attraverso il racconto dettagliato dello scrittore ci fa fare anche un vero e proprio viaggio nell’umanità dolente di chi coltiva la terra. Dopo la crisi finanziaria del 2007, la terra da coltivare (specie quella del Sud del mondo) è diventata oggetto di un frenetico «accaparramento» il cui risultato è una nuova forma di colonialismo che rischia di alterare gli scenari internazionali. Viaggiando fra l’Etiopia e il Brasile, l’Arabia Saudita e la Tanzania, passando per la borsa di Chicago, la FAO e le convention finanziarie, Liberti fa luce su un fenomeno poco indagato ma di scottante attualità, svelandoci come i legami fra politica internazionale e mercato globale stiano cambiando il volto del mondo in cui viviamo.


15942204_10212262477585758_1613635486_nDi Stefano Liberti, uno dei migliori giornalisti d’inchiesta del panorama italiano e sempre per la casa editrice Minimum Fax, si trova ai Diari anche il terzo recentissimo libro documentario dal titolo “I signori del cibo: viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta”
Secondo previsioni dell’Onu, nel 2050 saremo 9 miliardi di persone sulla Terra. Un reportage importante che segue la filiera di quattro prodotti alimentari: la carne di maiale, la soia, il tonno in scatola e il pomodoro concentrato, per osservare cosa accade in un settore divorato dall’aggressività della finanza che ha deciso di trasformare il pianeta in un gigantesco pasto. Nel libro vengono posti quesiti fondamentali su come ci sfameremo, se le risorse sono sempre più scarse e gli abitanti di paesi iperpopolati come la Cina stanno repentinamente cambiando abitudini alimentari e su come reagiranno la finanza globale e le multinazionali del cibo sempre a caccia dell’affare da fiutare. Un’indagine globale durata due anni, dall’Amazzonia brasiliana dove le sconfinate monoculture di soia stanno distruggendo la più grande fabbrica di biodiversità della Terra ai mega-pescherecci che setacciano e saccheggiano gli oceani per garantire scatolette di tonno sempre più economiche, dagli allevamenti industriali di suini negli Stati Uniti a un futuristico mattatoio cinese, fino alle campagne della Puglia, dove i lavoratori ghanesi raccolgono i pomodori che prima coltivavano nelle loro terre in Africa.
Un’illuminante inchiesta su come il business dell’alimenta= zione, oltre a danneggiare ognuno di noi singolarmente, stia compromettendo le sorti del pianeta. Inchiesta che fa luce sui giochi di potere che regolano il mercato del cibo, dominato da pochi colossali attori sempre più intenzionati a controllare ciò che mangiamo e a macinare profitti monumentali.


15941972_10212262472625634_520723640_nAd un anno di distanza da quella mostra di pittura, Eloisa Guidarelli è tornata ai Diari nel novembre del 2015 con un altra mostra di pittura dal titolo “¿qué es la vida? “.
La serata di inaugurazione è coincisa con la presentazione di due Antologie edite dalla casa editrice Rayuela : “Sotto il cielo di Lampedusa – Annegati da respingimento” (2014) e “Sotto il cielo di Lampedusa II – Nessun uomo è un’isola” (2015).
Un magnifico Reading poetico e la testimonianza di Abhram Tesfay del Movimento Eritrea Democratica ha accompagnato la serata. A curare il progetto un’altra amica dei Diari, Pina Piccolo, autrice di diverse poesie presenti nelle due antologie. Nella serata hanno letto le loro poesie: Bartolomeo Bellanova, Benedetta Davalli, Okwuchi Uzosike, Pina Piccolo, Met Sembiase e Gaius Tsaamo.


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La prima Antologia poetica ha una bellissima prefazione di Erri De Luca, la seconda, invece, una prefazione molto partecipata di Gino Strada. Si tratta di due raccolte di poesie e testimonianze molto profonde, due documenti unici ed esemplari che riescono a rovesciare non solo la visione di Lampedusa ma anche delle tragedie del Mediterraneo: da caos di disinformazione e lacrime di coccodrillo a un messaggio preciso e forte, senza spazio per pietismi o clamori. Nei numerosi incontri che hanno presentato l’antologia sono emersi altri progetti, artistici e documentaristici, a cui lavorano insieme italiani e africani. Ne esce l’emigrazione dall’Africa come esperienza eccezionale, di dolore e morte ma se riuscita, grazie alla solidarietà, anche di rinascita. Infatti l’Homo migrans– come lo chiama Pina Piccolo nella sua poesia, “Mediterraneo 2011: terzo capo d’accusa” è stato l’artefice della nostra civiltà, mentre oggi 16.000 dei suoi discendenti giacciono morti nel fondo del Mediterraneo.
Ai Diari altro tema costantemente proposto è quello della diversità e non a caso nel novembre del 2015 abbiamo collaborato con la Rassegna “Questione Di Genere”, una iniziativa esistente da cinque anni per promuovere l’uguaglianza di genere, il benessere lavorativo e a rimuovere le discriminazioni. In quella serata di fine novembre,con l’aiuto della giornalista Fabrizia Dalcò, abbiamo presentato il libro edito da Edizioni Alegre e scritto da Porpora Marcasciano dal titolo “ANTOLOGAIA Vivere sognando e non sognando di vivere. I miei anni ’70.”


15970158_10212262482185873_23523674_nPorpora Marcasciano è un’attivista del movimento gay-lesbico-trans, è stata presidente del MIT (Movimento Identità Transessuale) e in questa autobiografia parte da sè per raccontare non solo i suoi anni Settanta ma anche le battaglie del movimento gay, lesbico e trans da uno speciale punto di osservazione. Un libro documento prezioso di quegli anni che attraverso una esperienza deviante e scandalosa arriva a racconta con leggerezza e poesia un percorso e un viaggio personale negli anni di piombo, gli anni delle Brigate rosse e del rapimento Moro, per ricostruire la storia dei primi collettivi omosessuali e delle prime manifestazioni gay. Attraverso la sua biografia si raccontano di manifestazioni e passioni, di paure e sogni, di scoperta di una nuova sessualità di tanti ragazzi degli anni settanta. Nel racconto si incrociano tanti piccoli e grandi personaggi, si costruisce i primi collettivi Glt, i primi pride e il nascente movimento gay, che entra in relazione con il movimento rivoluzionario di quegli anni spingendolo a prendere coscienza di sé e del proprio corpo. Una realtà in cui trans, gay, lesbiche, donne e non solo rivoluzionano la propria vita e di riflesso quella del mondo.Una storia “favolosa” che a inizio anni ottanta viene travolta dall’Aids e dalla narrazione strumentale di chi descrive il virus come la “peste gay”. Da gioiosa, l’atmosfera diventa cupa, e la sensazione triste dell’impotenza prende il sopravvento tra i protagonisti di quella stagione, cancellando la memoria di un decennio. Fino ai giorni nostri, in cui tutto sembra esser stato “normalizzato” dalle leggi del mercato. Porpora reagisce a questa rimozione ricostruendo quella storia e i nessi tra moderno e postmoderno, necessari a rielaborare un pensiero e una cultura in grado di non farsi neutralizzare.


15942239_10212262478465780_268693807_nSempre con l’aiuto di Valentina Moglia, psicologa e curatrice di “Questione di genere” nell’aprile del 2015 ai Diari abbiamo presentato il libro “La proprietà transitiva” di Nelson Martinico (alias Giuseppe Elio Ligotti) e Federico Ligotti, pubblicato per edizioni Spartaco.
Su Winter Aubergine, a proposito di questo libro molto innovativo, la Blogger Chiara Lecito scrive un pezzo parecchio interessante dal titolo “Una particolare forma di amore”: Alessandro Giacobbe, protagonista de “La Proprietà Transitiva”, è l’uomo politico più integro e coerente che mai ci capiterà di incontrare: transessuale ed ex-prostituta, dopo aver riscoperto la sua identità come perfetta combinazione tra maschile e femminile, sviluppa un suo progetto politico con decisione, lo sostiene con autentica leadership e vince.
Il fatto è che Alessandro vive la sua utopia, ancor prima di crederci: Utopia è Rivoluzione, dichiara più volte, e Rivoluzione, si deduce dal romanzo, è Disvelamento, prima di tutto di se stessi. La freschezza intellettuale e etica di Alessandro nasce dalla consapevolezza che non si può essere altro da quello che si è, dall’unione di opposti che opposti non sono (maschile e femminile, appunto) e da una visione pragmatica dell’esistenza, lontana da quelle manie di classificazione morale e culturale che conducono all’immobilità e “costringono” all’ipocrisia. Il nostro riduce la gestione politica ai minimi termini: si occupa della cosa pubblica con tutto se stesso, vive nel privato quello che proclama in pubblico, pone il proprio benessere all’interno del benessere comune e viceversa. Insomma, a una classe politica che si ricopre di valori morali e poi va a travestiti si sostituisce un (ex) travestito che spoglia il potere di ogni falsità; a un partito che fiancheggia la mafia subentrano persone che dal potere mafioso si sono emancipate; a una mitologia stantia e disumanizzante succede un uomo energico, integro e coerente.La libertà raramente ha avuto un sapore così dolce, e il senso di possibilità che scaturisce da La Proprietà Transitiva è talmente intenso da fare quasi male.


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L’animo ribelle del protagonista, Alessandro Giacobbe, ha conquistato i lettori dei Diari in un mercoledì di Aprile attraverso l’interazione tra Valentina, Nelson e Federico, che con i loro dialoghi hanno mostrato come, aldilà del sesso e delle inclinazioni sessuali, i giusti possano alla fine fare la differenza, cambiare le cose, aiutare a migliorare la vita propria e quella degli altri. Un trans abbandonato dal padre quando era piccolo,che ha visto la madre consumarsi per un male incurabile, che conosce cosa vuol dire il disprezzo, l’umiliazione, la violenza, riesce a portare a compimento la sua battaglia per il cambiamento con la sua idea di Utopia e Rivoluzione. L’introduzione al libro “Cambio d’abiti”, è firmata dallo scrittore Fabio Stassi.


15970587_10212262485865965_154409995_nSe dimentichiamo il passato siamo condannati a ripeterlo e per questo anche della Memoria ai Diari abbiamo da sempre fatto un vessillo identificativo. Per i nostri appuntamenti di Letture ad Alta Voce del Mercoledi nel novembre scorso abbiamo deciso di leggere «I ragazzi venuti dal Brasile», il secondo libro del romanziere e drammaturgo statunitense Ira Levin, pubblicato da BIG SUR dopo “Rosemary’s Baby”. Siamo nel settembre del 1974 e dal loro rifugio in Sudamerica, un piccolo gruppo di gerarchi nazisti superstiti, capeggiato dal dottor Mengele, lancia un’operazione segretissima grazie alla quale sarà possibile la rinascita del Reich: esattamente 94 uomini, tutti intorno ai sessantacinque anni ma residenti in diversi paesi e senza alcun legame apparente fra loro, dovranno essere uccisi; per ciascuna vittima viene perfino stabilita la data dell’esecuzione. La notizia del piano giunge alle orecchie dell’ebreo Yakov Liebermann, leggendario cacciatore di nazisti, ormai anziano e assai male in arnese ma ancora determinato a dare filo da torcere ai suoi nemici storici. L’indagine per scoprire i dettagli dell’operazione e fermarne il responsabile condurrà Liebermann da una sponda all’altra del­l’Atlantico, portandolo a smascherare un incubo in cui la «banalità del Male» acquista contorni inediti, tra antiche fedeltà ideologiche e nuove teorie scientifiche. Con il ritmo serrato della narrazione e la precisione della scrittura, Ira Levin ci regala un altro romanzo perfettamente congegnato («la sua storia più fantasiosa dai tempi di Rosemary’s Baby», secondo il New York Times), divenuto anche un film di successo grazie all’interpretazione di Gregory Peck e Laurence Olivier rispettivamente nei pan­ni di Mengele e di Liebermann. Ira Levin elogiato da scrittori come Chuck Palahniuk, Stephen King e Truman Capote, nella sua lunga carriera letteraria ha vinto il Prometheus Award e, per tre volte, l’Edgar Allan Poe Award.


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Sempre a proposito di Memoria il 27 Gennaio abbiamo fatto una serata di riflessione e versi tratti da “La breve vita dell’ebrea Felice Schragenheim” di Erica Fischer e da “Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo” di Hans Sahl. Nel giorno in cui viene celebrata l’entrata dei soldati dell’Armata Rossa nel lager di Auschwitz e la liberazione dei prigionieri abbiamo voluto tenere viva la consapevolezza di ciò che accadde negli anni del Nazismo e del Fascismo, leggendo Poesie per Ricordare. E ricordare non vuol dire solo commemorare, ma anche capire il perchè di quell’orrore, di quei luoghi dell’odio. Il 27 gennaio 1945 è la data del rinvenimento di un orrore, il più grande della storia, ma è anche la costola portante di una legge che ha disposto il ricordo delle leggi razziali, della Shoah e di chi l’ha subita. E’ importante documentare e far diventare di dominio pubblico l’Orrore.
Le Poesie che abbiamo selezionato in quella occasione erano di uno degli scrittori tedeschi che, opponendosi alla deriva nazifascista, lasciarono la Germania prima della Seconda Guerra Mondiale, Hans Sahl. Nei suoi versi, nonostante l’orrore, la vita e l’amore vengono affrontati con un coraggio e con una lievità che ancora oggi ci sorprendono. Le parole e i versi carichi di vita che abbiamo selezionato in quella occasione non sono solo monito perchè una simile barbarie non si possa più ripetere, ma sono anche una testimonianza per far scattare dentro il cuore degli uomini di buona volontà quel sentimento di responsabilità. Di Hans Sahl abbiamo letto “Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo” edito da Del Vecchio e con la traduzione di Nadia Centorbi.
Una raccolta poetica che racconta l’esilio dalla Germania da cui Hans Sahl era fuggito perché ebreo e oppositore di Hitler, ma racconta anche uno dei momenti più bui di tutto il XXI secolo. Hans Sahl, fuggito nel 1941 tornò in Germania solo nel 1989, poco prima di morire: non ho niente contro la Repubblica federale. Ma sono diventato un uomo extraterritoriale, ho siglato un patto con l’estraneità.

Pochi esponenti della letteratura tedesca dell’esilio hanno vissuto l’estraneità con la radicalità di Hans Sahl. A testimoniarlo gli scritti autobiografici, tenacemente intesi a tracciare un’iconografia dell’esilio, ma anche questa intensa e sincera produzione poetica, che evidenzia suoni e vibrazioni di un’esistenza precariamente sospesa tra identità e dispersione. Appena qualche anno prima di rientrare definitivamente in Germania, Sahl scriveva a Joachim Koch, l’editore della rivista «Exil»: Esilio – non si tratta soltanto di una definizione politico–geografica, non solo di un luogo dell’estraneità, del confino. L’esilio è quasi diventato un moderno stato di coscienza. Ci sono interi popoli che vivono in esilio nel loro stesso Paese, per altri l’esilio diventa una seconda patria. Per Sahl, poeta “dal cuore pieno d’estraneità”, l’esperienza dell’esilio travalica lo spazio circoscritto dell’urgenza storica, estendendosi prospetticamente alla sfera esistenziale e facendosi permanente condition humaine.


I DIMENTICATI: Felice Schragenheim.

6200115_112214262518Altri brani letti quella sera del 27 gennaio erano tratti da “La breve vita dell’ebrea Felice Schragenheim” libro di Erica Fisher pubblicato dalla casa editrice triestina Beit per la collana Memoria. Il libro è un album di ricordi che con un registro documentaristico racconta un personaggio poco conosciuto e dimenticato troppo frettolosamente: Felice Schragenheim (Berlino 1922-Bergen-Belsen 1945), giovane scrittrice e giornalista ebrea. Una ragazza giovanissima che affronta la vita e l’amore con un coraggio e con una lievità che ancora oggi sorprendono: si sente protagonista della commedia dell’esistenza e non si lascia intimorire né dalla dittatura nazista né dal pregiudizio benpensante. Sarà proprio questa sua sincerità che la porterà ad affrontare in prima persona, senza risparmiarsi, la tragedia del suo tempo. Questo volume raccoglie, nelle immagini e nelle poesie di Felice e del suo mondo, una testimonianza indimenticabile sulla sua vita e sulla sua vicenda. Erica Fisher, già stata autrice di un testo romanzesco, “Aimée & Jaguar” (ultima edizione in Italia: TEA, 2007, nella collana “Teadue”), qui racconta con una maggiore documentazione la storia di questa donna sofisticata, controcorrente e anticonformista. Apre il libro una delle foto più toccanti, Lilly Wust che nel 1991, seduta al tavolo del suo tinello, solleva con la mano ossuta una delle foto dell’amica e amante Felice, sparse davanti a lei. Ha il viso scavato dal dolore, gli occhi pudichi nascondono una vita di lacrime. Lilly e Felice -Aimée e Jaguar, soprannomi letterari, secondo l’epica dell’amore -, si erano viste per l’ultima volta il 7 settembre 1944. Arrivate a casa senza fiato dopo una lunga pedalata sotto il sole, ci trovano la Gestapo. Felice tenta la fuga, cerca di correre via, ma la portano via e muore nel marzo 1945.

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Le mille testimonianze, le immagini, le lettere, le poesie, gli appunti raccolti dalla scrittrice Erica Fisher nel volume edito da Beit, dicono che si poteva essere felici. Che nella Berlino assediata dal Male la vita poteva pulsare ed espandersi e irradiare la sua grazia leggera. Che la paura poteva arrendersi di fronte alla normalità. Che nella tragedia, il cuore di Felice pulsava al suo solito ritmo, e di più. E che il suo sorriso restava invulnerabile: identico a quello che bambina esibiva nelle foto accanto alla sorella Irene. Felice nasce il 9 marzo 1922 all’ospedale ebraico di Berlino. Il padre Albert è un dentista, la madre Erna Karewski anche. Gli amici della famiglia sono ebrei di orientamento liberale e socialista. La casa è frequentata da avvocati, medici, artisti, come il noto scrittore Lion Feuchtwanger, cugino di secondo grado di Albert Schragenheim.
Fra i loro amici vi è anche un rabbino: gli Schragenheim, pur non essendo religiosi, danno molta importanza alle tradizioni. La vita scorre abbastanza tranquilla: le vacanze nella Foresta Nera, a Binz, sull’isola di Rugen, sugli sci a Johannisbad, nel Reisengebirge. È tutto nelle foto. Il miracolo della vita di Felice risuona in un apparato documentario incredibile.
Il certificato di nascita, l’iscrizione a scuola, i compagni delle elementari, i visti per l’espatrio, cartoline, lettere, poesie, ritratti, fogli strappati, quaderni, conti, tutto. Anche il primo lutto di Felice è inciso in una immagine.
L’incidente del 30 maggio 1930: la Fiat dei genitori si ribalta su una strada di campagna. Il papà rimane illeso, la mamma muore. Da lì, il precipizio: le prime epurazioni a partire dal 1933, la morte del padre nel 1935, l’esclusione dalla scuola dopo la Notte dei Cristalli del 1937. Tutti scappano, ma lei no, resta a Berlino fino all’incontro decisivo dell’ottobre 1942. L’amica Inge Wolf, con cui Felice condivide la casa, lavora come domestica da Elisabeth Lilly Wust, madre di quattro figli. Un giorno alla fine di novembre le tre donne si danno appuntamento al Café Berlin nei pressi del Banhof Zoo. Ed è subito amore. Lilly, sposata con un militare, con quattro figli maschi, nel 1943 si separa dal marito per amore di Felice. Lilly comincia a tenere un diario. Dopo la guerra e la morte dell’amata ricopia tutte le sue annotazioni e le poesie di Felice in quello che definisce il suo libretto delle lacrime. L’8 settembre 1944 Felice viene deportata e lei che si credeva invulnerabile muore in un campo di concentramento. La vulnerabile Lilly sopravvive a se stessa e al ricordo di quell’amore. Non è solo Felice la protagonista di questo libro, le protagoniste sono due, Aimée e Jaguar. Una morta a 23 anni, l’altra il 31 marzo 2006, a 97 anni. La rabbia nazista ha condannato entrambe. La seconda, Lilly, a ricordare. Per 74 anni, una vita intera.

 

Articolo originale: http://www.giudittalegge.it/2017/01/12/nello-zaino-di-antonello-impegno-e-memoria-in-una-libreria-indipendent/