di Francesco Picca per Magazzini Inesistenti

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Eloisa Guidarelli – 26 Rose Bianche (2018)

Quando i social assolvono alla funzione migliore, quella di creare incroci e connessioni, offrono la possibilità di conoscere piccoli e grandi universi individuali fisicamente lontani e contestualmente sconosciuti. Mentre rovistavo tra le immagini delle opere di un artista calabrese, il calderone social per antonomasia mi ha sottoposto le realizzazioni di una pittrice bolognese,  Eloisa Guidarelli. La curiosità, vero motore di questo nostro mondo bislacco, mi ha consentito di contattarla e di ospitarla nelle nostre pagine. 

Eloisa, parliamo della tua formazione artistica. Non ho mai frequentato una Accademia delle Belle Arti e nessun’altra scuola che potesse indirizzarmi alla mia forma artistica attuale. Sono una grafica pubblicitaria e ho anche un diploma in arte drammatica conseguito presso l’Accademia Antoniana di Bologna. La recitazione è forse stata la mia grande scuola di vita: lavorare sui sentimenti umani, visualizzare le immagini e le situazioni, immedesimarmi nella scena, mi ha consentito di perfezionare e di esprimere al meglio quella interpretazione “sentita” che mi ha guidata anche nella ricerca pittorica. Ho sempre pensato alla mia arte come a un atto rivoluzionario e sono stata coerente nella mia esplorazione, inscindibile dalla vita stessa, da quella vita che attraverso e che mi attraversa. La mia ricerca punta alla verità, e la verità spesso è scomoda, in tutte le forme di espressione artistica. Il teatro è una poderosa arma espressiva, la scrittura è di certo l’arma più potente, ma la pittura è quella più immediata, che può scivolare veloce e diretta  nell’anima.

Hai avuto dei maestri o degli artisti che hanno condizionato i tuoi gusti e segnato il tuo percorso? Artisticamente amo moltissimi pittori, ma non mi identifico con qualcuno in particolare. Penso di avere un mio stile pittorico riconoscibile, quello con cui mi sono formata e in evoluzione continua. Credo anche che la collocazione artistica sia più un bisogno degli altri  non certamente di chi dipinge. Le somiglianze e i rimandi alle correnti passate e presenti si spiegano col fatto che siamo tutti il retaggio storico di una forma artistica più vecchia di noi. Non ho avuto maestri, ma c’è stata una figura importantissima nella mia vita, anche per il profondo legame di amicizia che ci ha legati. Parlo dell’artista Concetto Pozzati, una persona di rara intelligenza e cultura, che ha creduto in me e che ha curato la mia prima personale nel 2011, preoccupandosi soprattutto che fossi psicologicamente pronta per introdurmi in un ambiente a me totalmente sconosciuto.

Quali tecniche utilizzi? Utilizzo principalmente l’acrilico su faesite, ma sono partita con il dipingere stuoie. Quando mi sono ammalata di polmonite non potevo uscire per procurarmi materiale, ma mi premeva esprimere ciò che avevo dentro; in casa ho trovato delle vecchie stuoie in fibra naturale, quelle che si utilizzano in spiaggia, e ho cominciato a dipingerle con gli acrilici. Poi ho acquistato delle vecchie lenzuola fatte al telaio: con acqua e vinavil imbrattavo il cotone per preparare la tela e mi costruivo l’intelaiatura di supporto segando le assi in legno. Un lavoro durissimo, ma ho cominciato così, esplorando la fatica del dipingere. Ancora oggi costruisco personalmente le intelaiature di supporto per ogni mio dipinto su legno o faesite. Dipingo a terra e non ho mai utilizzato un cavalletto; ho bisogno di avere un punto di visuale orizzontale, e ho bisogno di ruotare intorno al dipinto, di potermi appoggiare, con le gambe, con le braccia, con mani o gomiti, di sentire l’energia della terra attraverso il pavimento. E’una sensazione molto bella, così come dipingere con i polpastrelli o, quando occorre, con altri strumenti che non siano i pennelli.

Le tue opere sono ricche di richiami all’attualità, alle questioni geo-politiche e ai grandi temi sociali. La tua arte è un modo per prendere posizione? I miei dipinti sono le fotografie di un reportage sui fatti del mondo, ma non mi interessa fare politica attraverso l’arte, mi interessa unicamente raccontare l’umanità. La mia pittura dice “questi sono i morti in mare, questi sono i morti in guerra, questa è l’umanità, fatta di bene quanto di male”. Dipingo ciò che vedo, ma anche ciò che manca, ciò che vorrei vedere realizzato attraverso la lotta e mai attraverso una resa. L’ambito della mia formazione pittorica è stata la mia stessa vita, la mia esplorazione, le mie domande, il mio dolore, la mia impotenza, la mia sconfitta, la mia paura, il mio disagio, le mie lotte, la mia empatia. La mia passione è nata con una polmonite e con il desiderio di raccontare attraverso le immagini il G8 di Genova; poi è continuata con i diritti dei migranti, con la Siria, la Palestina, con le donne uccise, con le donne libere, con il dramma dell’emergenza climatica, ma anche con le tematiche dell’amore, della passione, della ribellione, del dissenso. Per essere vera, per essere libera, per sfatare i tabù e i pregiudizi, la mia espressione artistica ha scelto la verità non ha scelto di essere scomoda, ma raccontando attraverso le immagini quello che è la nostra storia attuale, senza evitare anche le tragedie umane perché fanno parte di questa storia, allora sì potrebbe certamente diventare scomoda per qualcuno. Soprattutto quando si tratta di diritti umani non riconosciuti.

Esiste davvero la solitudine dell’artista? La cultura incarna da sempre un potere rivoluzionario che, peraltro, le dittature hanno sempre riconosciuto, temuto e spesso soggiogato. Un artista deve accettare di non avere paura, deve ammettere di non conoscersi e deve esplorarsi come uno sconosciuto, scavando nella parte più profonda di sé. Occorre anzitutto una profonda lealtà con se stessi, perché l’arte non permette di mentire, mai, e non ammette compromessi, altrimenti ti smentisce, comunica qualcosa di falso, di non interessante o di indifferente. Un artista deve essere disposto alla forma di solitudine più difficile, quella piena di volti e di anime. Deve avere una empatia tale da considerarsi senza pelle, rappresentare sia la sofferenza sia i momenti di gioia intensa, percepire la vita come un universo del quale è impossibile non fare parte. La mia pittura mi permette di sentire e raffigurare quell’infinito che vedo in ogni essere umano, ma che la stessa società nega ad ogni singolo individuo quando lo categorizza. La pittura mi restituisce una mia identità, figlia di una scelta personale e non di una imposizione sociale. La mia pittura “sono io”, senza maschere, nella ricerca della realtà.

Le figure femminili hanno un ruolo centrale nella tua arte. Si, la donna è spesso il personaggio principale della mia storia; desidero sottrarla al ruolo teatrale di “spalla”, rivendicarne il ruolo primario nei secoli, restituirle dignità scenica. La donna che rappresento non è la grande donna dietro il grande uomo, bensì una donna artefice della propria vita e del proprio destino. Il richiamo continuo alle figure femminili è stato, inizialmente, un fattore di ricerca di me stessa attraverso tutte le donne; poi è diventato un desiderio di riscatto sociale, di liberazione della donna dalla morsa di una società che sembra regredire. La violenza, la discriminazione lavorativa e salariale, una cultura pubblicitaria mortificante e insultante, i diritti acquisiti posti costantemente sotto minaccia, sono cose che non intendo accettare. La mia pittura è uno strumento con cui cerco di restituire alle donne un meritato protagonismo.

Il tema della vita è un altro motivo forte e ricorrente nelle tue opere. L’arte è magia, è rivoluzione, è morte e vita allo stesso tempo. Spesso la vita ha un peso enorme e la sofferenza genera sempre due stati emotivi: il dolore e la speranza. Il dipinto è un modo per dividere il peso di un dolore con altre anime, e io vado alla ricerca di ogni singola coscienza che sia in grado di “sentire” e di condividere questo dolore. Dipingere la Diaz non è stato facile, non è stato leggero, così come dipingere Lampedusa o la Siria. Però ho ricercato la forza per farlo, e l’ho trovata proprio in quella gente che non ha alcun potere perché non sa di averlo.

Qual è il tuo rapporto con le tue opere? Non sono legata ai miei dipinti da una forma di possesso o da un legame affettivo. Quando dipingo vengo attraversata dalle immagini, e questa è sicuramente una esperienza molto forte. La pittura è ferma, è statica, eppure l’atto del dipingere è un meraviglioso passaggio, una compenetrazione tra arte e anima che traspone l’infinito della persona in un oggetto finito, un oggetto che assume ed esprime tanti significati quante sono le anime e gli occhi che lo attraversano. Per questo non amo “spiegare” i miei dipinti: ho scelto la pittura, l’immagine, non la parola. L’unica cosa che potrei dire al termine di una realizzazione è che “io non c’entro più nulla”; io l’ho dipinto, ora alzo le mani, mi arrendo, mi godo questa mia grande pace e lascio che il dipinto continui il viaggio da sé, in completa autonomia.

La realtà che ci circonda viaggia a ritmi forsennati ed è fatta spesso di immagini sfuggenti.

Abitiamo un mondo di immagini che ci ha abituati alla velocità, che ha diminuito la nostra pazienza e la nostra capacità di concentrazione e di osservazione. Il dipinto è un’immagine, può colpirti, non colpirti, piacerti o non piacerti, ma non puoi non vederlo. La psichiatria e la psicologia infantili hanno sempre usato il disegno al fine di tirare fuori ciò che è troppo traumatico per poter essere espresso con la parola. Impugnare un pennello, o una matita, significa ricercare, rovistare dentro di noi, in un silenzio che ci avvolge, ci tutela e ci incoraggia.

Sei un artista solitaria o ami anche le collaborazioni? Preferisco organizzare mostre personali, delle quali curare io stessa l’allestimento. Artisticamente ho però collaborato con diversi poeti e poetesse, con musicisti, con fotografi, con giornalisti che trattano le tematiche sulla migrazione e sui diritti umani. Spesso ho utilizzato le proiezioni dei miei dipinti all’interno di eventi organizzati, come ad esempio L’Ottobre Africano a Bologna. Nel giugno 2017, a Velletri, ho collaborato ad un progetto con due artisti che stimo molto, il fotografo Marco Martini e lo scultore Palmiro Taglioni; abbiamo esposto in una ex stazione ferroviaria, oggi gestita da un gruppo di ragazzi che l’hanno trasformata in un polo di aggregazione e di scambio culturale. Il progetto, intitolato “Alterità” e inserito in un momento storico dominato dall’indifferenza, dall’odio, dalla paura del diverso e dal rifiuto all’accoglienza, si è proposto di mostrare come l’alterità sia in realtà una forma di ricchezza ulteriore, un valore aggiunto. Il titolo della mia personale di dipinti è stato “The wall”; mi sono concentrata sul dramma dei muri reali, fisici, e di quelli mentali dell’indifferenza, rappresentando il dramma dei respingimenti e delle stragi nel Mediterraneo. Ho curato anche due esposizioni a Parma, negli spazi della libreria indipendente “Diari di Bordo”, intitolate “Que es la vida¿”, sottolineando il valore della vita umana, e “A sud di Lampedusa” in cui, come attrice, ho letto alcuni brani estratti dall’omonimo libro del giornalista Stefano Liberti. 

Tra le tue realizzazioni mi ha colpito “26 Rose Bianche”. Nel novembre del 2018 ho allestito una personale nella Gipsoteca Vitali, a Cento, intitolata appunto “26 Rose Bianche”. Ho presentato una serie di dipinti sulla tematica delle migrazioni, sul dramma dei naufragi, delle guerre e dei viaggi della disperazione. In particolare, con l’omonimo dipinto, ho voluto ricordare le ragazze nigeriane morte al largo delle coste libiche e recuperate dalla nave Cantabria nel novembre del 2017. Erano ragazze giovanissime, piene di sogni e di ideali. Erano “migranti”, una parola abusata che, ripetuta da tutti noi, è ormai diventata un termine che ci consente di eludere la più giusta definizione di “esseri umani”. Dobbiamo tornare al valore della “persona”, non della “condizione” della persona, altrimenti si rischia di dimenticare l’umanità, di costruire un alibi e di ingabbiarsi nella propaganda, così come accade per i femminicidi, senza mai trovare soluzioni vere ed efficaci. Proprio per questo diventa fondamentale la meravigliosa forza empatica dell’arte espressa attraverso la “sana febbre” di ogni artista. 

Consideri la pittura come un lavoro? Dipingere è un lavoro a tutti gli effetti, ma non è riconosciuto come tale. Ho scelto di propormi al di fuori dei soliti circuiti, esponendo spesso in luoghi e contesti che consentissero alla mia arte di andare incontro alle persone e non viceversa. Occorre viaggiare, scambiare, contaminarsi, abbattere ogni possibile barriera e creare nuova bellezza e maggiori opportunità. Dipingo per le persone, non per i critici d’arte. Questa scelta implica che io diventi l’organizzatrice di me stessa, la promotrice del mio stesso lavoro. 

C’è una parola che ricorre spesso nella tua narrazione: la parola speranza. Guai se venisse a mancarci la speranza: sempre meglio l’utopia del cinismo.